Sono stato a Siena e l’ho ritrovata stupenda come sempre. Naturale; se non sono riuscite le ingiurie dei suoi numerosi secoli di esistenza a scalfirne la  storica bellezza, non vedo perché avrebbero dovuto farlo i pochi anni della mia assenza.

Questa volta però non mi sono accontentato ed ho voluto dare un’occhiata anche al famosissimo entroterra, illustrato da numerosissimi scrittori e cantato da altrettanti poeti italiani e stranieri.

Le famose colline del Chianti, patria del celeberrimo vino, stereotipo del tipico paesaggio toscano: colline dolci e degradanti una verso l’altra, coperte da vigneti ed altre coltivazioni tipiche, immagine di un lento trascorrere del tempo che regala ai fortunati che le occupano un’esistenza terrena tranquilla e gratificante. L’ultimo paradiso.

Colline e colline a perdita d’occhio dove il silenzio regna sovrano, interrotto solo da qualche lontano latrato di cane o dal canto di un gallo.

Quasi su ogni cocuzzolo una costruzione, una centenaria casa colonica, ed al di sotto un podere ben lavorato ed ordinato.

Ma ho anche scoperto che cosa nascondono queste colline. Immaginate. Se è vero che ogni sommità è occupata da una costruzione, debbono esserci necessariamente delle strade che le uniscono fra loro ed ai più vicini centri abitati. Così dovete pensare ad una vera e propria ragnatela di stradine, perlopiù ricoperte da uno strato di  breccia fine e compatta,  che tessono una trama fittissima, una sorta di rete a larghe maglie distesa sopra le alture.

Mi sono inventato di andarle a percorrerle in bicicletta; era un po’ che pensavo di farlo. Ho speso tantissimo tempo a prepararmi: il mezzo, l’abbigliamento. Da quelle parti, infatti, annualmente si corre una particolare cicloturistica la cui caratteristica principale e quella che i partecipanti cercano di emulare, nel mezzo usato e nello stile del vestire, i campioni, i giganti, gli “eroi” d’altri tempi che hanno segnato con le loro imprese e su strade di questo genere la storia del ciclismo.

Alla luce dell’esperienza fatta, debbo dirvi che bisognava proprio che le percorressi in bicicletta per carpirne nell’intimo la vera essenza che è quella di una fatica ed una sofferenza indicibile, un vero e proprio calvario nel tentare di domarle.  Pendenze ripidissime degne del “rampichino” di una “mountain bike” e, per semplice legge fisica, altrettante discese a capofitto dove allo stridore dei freni si accompagnava il rumore sinistro delle ruote della bici che perdevano aderenza, rischiando di mandarmi a gambe all’aria. A tutto ciò si aggiunga l’incombente minaccia  di forare non una, ma più e più volte i lisci tubolari a causa della breccia minuta ed aguzza, ed i continui scossoni ai quali era sollecitata la bici, le mie povere ossa, ed il delicato soprassella il quale, qui da noi, è abituato a deplorare ogni “piccola” buchetta incontrata sull’asfalto. La Maratona delle Dolomiti? Roba quasi da ridere. La Nove Colli? Ilarità pura. Ed il resto delle manifestazioni che ho corso? Bazzecole, roba da infanti col triciclo. Solo la mia fresca esperienza di “mountain bike” mi ha aiutato.

Ho fatto settanta chilometri di strade bianche sterrate, dei centotrentacinque complessivi che prevedeva uno dei quattro percorsi, intervallati da altrettanti su asfalto. Ma anche il nastro d’asfalto è steso sulle stesse colline! Nel realizzarlo magari si è privilegiato un tracciato più consono ai veicoli a motore piuttosto che ai muli od ai trattori, ma vi garantisco che durante il viaggio di ritorno a casa anche l’autostrada mi appariva perennemente in salita, quasi che il cervello, per autodifesa, si fosse ormai abituato all’idea delle strade perennemente in pendenza. E poi, questi intervalli su asfalto, spesso avevano il sapore della beffa, perché quando sospiravi un “òòòhhh…” nel momento in cui lo ritrovavi, non facevi in tempo ad emettere l’ultima “h” che ricominciava lo sterrato. Ho capito poi che è abitudine dei residenti, stendere davanti alla propria dimora una leccatina di bitume, per evitare per quanto possibile il sollevarsi della polvere proprio davanti alla loro casa. Per noi però, questo appariva come una sorta di vera e propria presa per i fondelli.

Ma allora, cos’è che richiama a Gaiole in Chianti centinaia e centinaia di appassionati italiani e stranieri? Quest’anno sono stati quasi duemilacinquecento; circa il doppio dello scorso anno.

E’ proprio la peculiarità, la singolarità di questa manifestazione, dove, a parte il percorso, tutta l’aria che si respira ha un sapore particolarissimo. Del fatto che la stragrande maggioranza dei partecipanti, quasi fosse una festa in maschera, è abbigliata e dotata di mezzi d’epoca, ho già detto, delle strade pure. Per il resto c’è da osservare che alla consegna del pettorale si è ricevuti da un piccolo ma curioso museo di biciclette d’ogni tempo e stile e da un mercatino dell’usato dove gli appassionati possono reperire, a caro prezzo però, componenti ormai introvabili. Se io potessi riciclare in questo modo tutti ciò che ho raccolto nel tempo, diverrei ricco.

Il venditore prende in mano ogni pezzo, magari storto ed arrugginito, e te lo mostra decantandone le qualità dando l’impressione quasi di dispiacersi nel doversene prima o poi separare. Lo stesso dicasi per l’abbigliamento: vecchi e sdruciti pantaloncini di lana, danno l’impressione d’essere condomini di fameliche tarme, e magliette sempre di lana, hanno la curiosa caratteristica di arrivarti quasi alle ginocchia per quanto sono lunghe. C’è anche il venditore delle decalcomanie, con tanto di lista delle biciclette di riferimento, fiero dell’ampia dotazione che può vantare in proposito.

Il mattino della manifestazione si parte “alla francese” già dalle cinque. D’altra parte, chi fa la duecentocinque chilometri, dei quali circa la metà su strade bianche, corre, già così, il rischio di rientrare a tarda sera. Chi si avvia prima delle 6,30 deve obbligatoriamente usare le luci. Alla partenza da Gaiole si scende verso Castelnuovo Berardenga e nel buio, le luci anteriori delle bici, sembrano stelle cadenti.    

I ristori, oltre ad essere straordinariamente ben forniti, sono anche loro molto caratteristici. Lì ho avuto modo di consumare una ribollita calda, cotta al momento in un paiolo di rame, innaffiata da un bicchierozzo di ottimo Chianti, servita da una giovane donna in costume tradizionale, così come in costume tradizionale erano anche tutti gli altri addetti ai ristori. Abbondavano formaggi e salumi locali, miele e dolci caratteristici serviti con bicchierini di vin santo, fra i quali, naturalmente, spiccava il tradizionale panforte. Nessun tipo di controllo elettronico dei passaggi, ma, al suo posto un addetto che timbrava semplicemente un tagliando che ciascuno recava con se, specificando, in modo approssimativo, l’orario di passaggio.  All’arrivo una vera e propria festa con tanto di banda che suonava imperterrita motivi d’altri tempi, il pranzo dei cosiddetti “eroici” e le premiazioni che privilegiavano le migliori interpretazioni, nella bicicletta e nell’abbigliamento, dello spirito della manifestazione.

Tanto per la cronaca, io ho fatto un “mazzo tanto” e come al solito non ho beccato un fico secco, ed invece la mia bicicletta s’è fatta portare per tutto il tempo a spasso su e giù per le colline ed alla fine è stata proprio lei a  vedersi concedere un premio. Le è stato conferito come “bici eroica”, per la perfetta interpretazione del mezzo meccanico d’altri tempi e per la buona conservazione generale. Onore a lei, speriamo non si monti la testa. Non ho detto a nessuno che m’aveva dato qualche noia al cambio, soprattutto nei passaggi più difficili provocando non poche imprecazioni, però non ha mai forato e, benché quasi cinquantenne ed acciaccata, ha resistito a tutte le ingiurie provocategli da strade a dir poco “fuori ordinanza”. Ora, almeno per un anno, si godrà un meritato riposo ma dovrà tenersi pronta, perché il copione certamente si replicherà.

Insomma, per non farla troppo lunga, una cosa veramente da provare, divertente se volete, sempreché però si sia prima di tutto ben allenati e poi disposti a soffrire e, credetemi, a soffrire tanto e veramente. Le stradine del Chianti non perdonano.

 

                                              

                                                                                              Lo Scozzese