Una randonnée da veterano 

 

Mi è già capitata l’occasione di partecipare ad altre “randonnées” ed, in particolare, ad una di trecento chilometri.

E’ avvenuto l’anno passato; stessa la località, Nettuno, di quella prevista per il 15 aprile appena passato ed alla quale avevo deciso di partecipare, stesso il percorso, salvo un incremento per quest’anno di quasi venti chilometri, stesso il luogo e l’ora di partenza, stessi addirittura alcuni dei compagni d’avventura.

Questa volta però, l’avvenimento ha avuto una fisionomia piuttosto diversa già a partire dalla vigilia: non più patemi d’animo, non più dubbi sull’organizzazione della circostanza in termini, ad esempio, di attrezzature e di alimentazione, non più voglia di fare “dietrofront”.

“Dietrofront” certo. E’ inutile, infatti, sottolineare che un’uscita in bicicletta di trecento chilometri da percorrere praticamente tutti d’un fiato, salvo naturalmente le soste per i controlli ed un caffè, per riempire le borracce d’acqua, per alimentarsi o semplicemente per soddisfare un ovvio ed inevitabile bisogno corporale, non può certamente essere annoverata fra ciò che può considerarsi normale nel campo della pratica ciclistica svolta da persone normali. Naturale che la vigilia comporti qualche preoccupazione.

Invece no, confermo, quest’anno i giorni precedenti sono stati vissuti con una tranquillità praticamente totale.

Evidentemente deve avere giocato un ruolo fondamentale l’esperienza passata, che ha avuto l’effetto di creare uno stato d’animo caratterizzato dalla razionale consapevolezza che l’obiettivo fosse raggiungibile, alla portata delle mie forze fisiche ed anche e soprattutto mentali.

E’ strano come la mente umana, ancora prima che il corpo, faccia presto ad abituarsi a raggiungere determinati traguardi e come diventi quindi comprensibile il fatto che noi si senta il bisogno di porsene sempre di nuovi e sempre più difficili, per sentirsi stimolati e gratificati quando li si raggiunge.

Ma per il momento, volendo restare nel campo di quanto già sperimentato, è piacevole poter constatare, non senza forse un po’ d’immodestia, che non c’è alcun dubbio, di queste manifestazioni posso ormai considerarmi un veterano; quasi uno come coloro che l’anno scorso guardavo non senza un briciolo di curiosità e d’ammirazione, calati com’erano in quella loro tranquillità e consapevolezza.

Ma passiamo ai fatti.

Alzataccia di rito; la partenza è prevista fra le 5:30 e le 6:30 del mattino. Sono rapidi i preparativi; tutto e praticamente pronto già dalla sera prima. Un rapido trasferimento al luogo stabilito per la partenza e subito agli adempimenti di registrazione. Mi accoglie l’organizzatore che in tono scherzoso mi apostrofa:”Peppe, hai visto, Domenico c’è, quindi nessun problema.possiamo partire!”. L’accoglienza e la frase contribuisce a farmi sentire “uno del branco”, in famiglia, uno di quelli che sa. Domenico è uno conosciutissimo nell’ambiente, ha già al sua attivo numerosissimi ed importantissimi traguardi, uno che trovi dappertutto, fortissimo, una specie di istituzione.

Da una rapida occhiata, come era anche ovvio potersi aspettare, c’è molta più gente dell’anno passato. Questo è l’anno della Parigi-Brest-Parigi, una manifestazione di milleduecentosessanta  chilometri da percorrere praticamente “no-stop” in un lasso tempo limitato che si svolge una volta ogni quattro anni, una sorta di olimpiade del cicloamatore, ambita come solo una olimpiade può essere. Prevede uno sbarramento d’ingresso che comporta il superamento di quattro prove o brevetti di  200, 300, 400 e 600 chilometri. Ovvia quindi quest’anno la maggiore partecipazione.

Insieme a noi, nel bar che accoglie l’organizzazione presso il locale campo di baseball, ci sono anche due poliziotti di pattuglia che si sono fermati forse per un caffè o per semplice curiosità ed una piccola “troupe” cinematografica che sta girando un documentario sulla vita di uno dei partecipanti. 

Gustosa la battuta salace di un ciclista perugino il quale, notando il fatto che costoro stavano riprendendo l’avvenimento, rivolto ad un compagno, con la tipica cadenza dialettale  ha esclamato:” Remo, mettiti in ordine, pettinati!”. Mi sono automaticamente girato  e sono scoppiato a ridere:  Remo era completamente calvo.

Fra i partecipanti ci sono anche i due Riccardo, due giovani che abbiamo conosciuto alle 200 km di Nettuno e di Corchiano e che, se è vero che queste manifestazioni sono da considerarsi alla stregua delle escursioni, allora bisogna dire che loro sono due escursionisti veri: scarpe da tennis e pedali tipo bici da passeggio l’uno, “mountain bike” pesantissima l’altro, ma con pneumatici tipo “slick”, tende a sottolineare come se ciò fosse determinante. Un bel coraggio affrontare trecento chilometri in quelle condizioni; ma che volete mai, questo è il mondo e questi sono i personaggi delle “randonnées”.

Si parte alla spicciolata, alla francese sarebbe la dizione più corretta. Io più alcuni altri formiamo un gruppetto a se stante e partiamo fra gli ultimi. E’ importantissimo in queste occasioni formare un piccolo gruppo omogeneo per caratteristiche atletiche ed intendimenti, per darsi una mano; i piccoli e grossi problemi sono sempre dietro l’angolo.

Purtroppo nelle ore immediatamente precedenti la partenza è piovuto e così le strade sono completamente bagnate. Questa situazione però durerà poco perché la situazione meteorologica migliorerà rapidamente. Facciamo però in tempo ad inzaccherare completamente le biciclette e noi stessi.

Tutti abbiamo le luci anteriori e posteriori accese, come da regolamento, anche se ormai è l’alba. Qualcuno indossa anche il giubbino con le fasce rifrangenti. I due poliziotti di pattuglia incontrati nel bar, dovendosi trasferire nella stessa nostra direzione, improvvisano una provvidenziale scorta e ci sottraggono al pericoli degli incroci almeno fino a Lavinio, mentre la piccola “troupe” continua a riprendere le scene dell’avvenimento sia con la macchina da presa che con apparecchi fotografici. Di lì a breve però,  così come ci abbandonerà la scorta dei due poliziotti saremo abbandonati anche dai “cineasti”; da ora in poi soli al nostro destino.

Scorrono luoghi e paesaggi per alcuni di noi consueti lungo un percorso ormai tradizionale: Ardea, Campoleone, Lanuvio, Genzano e tutti gli altri “Castelli” collocati lungo la via Appia fino a Castel Gandolfo.

L’immagine del lago vulcanico che lo caratterizza è sempre una piacevole sorpresa e non si può fare a meno di intrattenersi a guardare il panorama sia dalla parte alta che dalla parte bassa dell’antico cratere che lo contiene.  

Da qui, la salita successiva alla via dei Laghi, caratterizzata da tratti abbastanza impegnativi, arriva sempre sgradita, stemperata solo dalla parte successiva in saliscendi che porta ai Prati del Vivaro.

Poi tutto in discesa almeno sino al bivio delle Macere, sulla strada che porta a Lariano.

Mi accompagna in questo tratto Sergio, a ripetere una trama che si ripropone più o meno uguale a quella dell’anno scorso: lui ed io da soli fra una catena che esce dalla propria sede, una luce che cade dal manubrio dove è collocata così come succede per il marsupio, all’interno del quale riposano un certo numero di panini pronti a svolgere il loro prezioso dovere alla prima occasione. Risultato: di nuovo attardati rispetto al nostro gruppo, ma ci riuniremo al bar Antica Baita.

Lariano ci accoglie che ormai è giorno fatto. Giulianello ed i ripidissimi saliscendi della cosiddetta Caranella che portano di nuovo sull’Appia a Velletri, ci ricordano, come una minaccia, che li ritroveremo al ritorno,  ed allora, con circa duecentocinquanta chilometri nelle gambe, ci faranno veramente soffrire.

Da Velletri a Carano e da qui a Cisterna è un soffio. Non so bene per quale ragione precisa, ma il gruppo col quale stavo si divide in due tronconi ed io mi trovo con gente che non conosco che immediatamente mi nomina “navigatore ufficiale”. Non è per caso infatti che io sia l’unico conoscitore delle strade della zona dotato, fra l’altro, del bagaglio dell’esperienza dello stesso percorso fatto l’anno precedente. Questo fatto, di per sé, già mi inorgoglisce.

Tale situazione si protrae da Cisterna a Cori e da qui a Doganella prima e poi Ninfa, Sermoneta e  Sezze Scalo dove è prevista una sosta. Fra l’altro è praticamente ora di pranzo e quindi decido, assieme ad altri, di aspettare la parte rimanente del gruppo originario. Arrivano abbastanza rapidamente e vengo informato del fatto che ci sono stati problemi dovuti ad una foratura.

Si riparte con la consapevolezza che ora ci aspetta la parte più impegnativa del percorso. Si raccoglie ciò che rimane delle forze, nelle gambe ci sono già circa centoottanta chilometri,  e dopo breve inizia l’ascesa a Carpineto Romano. Il gruppo inevitabilmente si sfalda un po’ ma ci riuniremo tutti nei pressi del fontanone ubicato un po’ prima di raggiungere la località di Cona di Selvapiana.

Qualcuno comincia ad accusare dei dolorosi crampi, qualcun altro incontra un amico e collega che possiede da queste parti un uliveto al quale sta lavorando e ne approfitta per riposarsi un po’ e tracannare due bei bicchieri di succo di frutta gelato ed un bel caffè.

A gruppo ricompattato si riparte ed i due bicchierozzi di succo di frutta gelato non tardano a sortire i loro effetti. E’ così che Sergio, fra un crampo e l’altro alle gambe, comincia ad accusare dei crampi anche al ventre col risultato che, mentre quelli alle gambe saranno superati senza danno, i crampi al ventre lo costringeranno in breve alla resa. La sosta nel provvidenziale bosco che ingloba la strada sarà inevitabile.

Raggiungiamo insieme il gruppo che ci aspetta al controllo di Colleferro, dopo aver attraversato un pittoresco mercatino domenicale di oggetti vari che si snoda lungo la strada. Sergio si accorge di essere osservato e quando arriviamo al bar dove è posto il controllo, guardandosi allo specchio ne capisce il perché: quello specchio gli rimanda l’immagine di un viso annerito dal grasso di una catena che fino a qui gli ha dato il tormento.

Si riparte dopo breve e da qui in poi la cronaca è solo quella di una fatica che, a parte quella già accumulata, monta rapidamente, e quella di un pensiero fisso che attanaglia la mente: la voglia di arrivare il prima possibile per far finire il tormento delle gambe che dolgono, delle strade butterate di buche e di avvallamenti che non contribuiscono certo a rendere piacevole il transito in bicicletta, di una sella che sembra mordere il perineo, dei polmoni che fanno anche loro fatica ormai ad aprirsi regolarmente e completamente e del buio della sera che ormai incombe.

L’arrivo dovrebbe essere vissuto come una liberazione ma non appena il cancello viene varcato si dimentica tutto. Rimane solo la soddisfazione per avercela fatta. La leggi negli occhi degli altri, in quelli di Sergio per il quale ancora una volta ha contato più la testa che le gambe, in quelli dei due Riccardo soprattutto, increduli loro stessi.

Lo stesso vale anche per me. Ma come avevo già accennato prima, questa volta l’emozione non è quella di un novizio; è attenuata dal fatto che la mente si è già abituata.

Avrò bisogno quanto prima di affrontare una quattrocento chilometri per ritrovare lo stimolo. E poi?