Sogno d’una pedalata di mezza estate

 

 

Non c’è molto che ci distingua da un cinese o da un aborigeno; i caratteri somatici, la lingua e la cultura si, ma tolto ciò, tutto il resto ci fa assomigliare moltissimo.

Ci sono espressioni del genere umano che ci accomunano tutti, a dispetto della zona di provenienza e del colore della pelle, dando ragione a coloro che hanno rintracciato all’origine di tutti i popoli che calpestano oggi il suolo di questa nostra Terra, un ceppo comune, quasi sicuramente proveniente dall’Africa nord orientale.

Il sorriso, il pianto, darsi o stringersi la mano in segno d’affetto, stima o amicizia, baciarsi ed abbracciarsi battendosi il palmo della mano sulle spalle, certe particolari altre gestualità, come la minaccia di un bastone od il lancio di un oggetto, l’abbassare ed alzare la testa in segno d’assenso o scrollarla in senso di diniego, debbono essere considerati segnali di una cultura originaria comune.

E pedalare? No, questo proprio no; questo veramente è un gesto ancora non ad appannaggio di certe popolazioni che, poverine, certamente non sanno cosa si perdono.

A parte le espressioni culturali palesi, a volte mi sono chiesto se anche le menti dei vari popoli nascondano gli stessi pensieri. Partendo dai presupposti detti, secondo me sarebbe molto facile dedurre che anche certe meditazioni e certe fantasie, possano essere considerati patrimonio comune del genere umano, sogni compresi. Sfido chiunque a negare di non aver mai sognato di volare librandosi leggero fra le stanze della propria abitazione o di cadere precipitevolmente dall’alto svegliandosi di soprassalto, al punto da avvertire distintamente una sorta di tonfo proprio sul letto dove stava dormendo.

C’è qualcuno, inoltre, che negherebbe di aver mai sognato ad occhi aperti di tornare molto indietro nel tempo, forte delle capacità e delle conoscenze attuali, per vivere di persona le situazioni ed i tempi che ci hanno trasferito i libri storia? A me è capitato e capita ancora molto spesso, a volte anche quando vado in bicicletta.

Ho una raccolta di vecchie cartoline e fotografie che documentano l’aspetto architettonico dei nostri due paesi a cavallo degli inizi del secolo scorso. Mi piace studiarne i dettagli e comparare minuziosamente le zone rappresentate fra com’erano e come sono, riconoscerle ed intravedere gli elementi vecchi, ancora esistenti o meno, rispetto ai nuovi . A volte neanche me ne accorgo e, nella veglia, inizia una sorta di sogno, di fantasia, nel corso della quale mi aggiro ammirato fra le costruzioni e le strade del tempo, dispiacendomi di non poterle più vedere come tali e maledicendo, da una parte le distruzioni dell’ultima guerra e dall’altra la cecità di generazioni di amministratori incapaci che hanno ridotto i nostri paesi ad essere l’ombra di se stessi.

Da quelle immagini, capisco a cosa era dovuta la fama che attirava qui, ad inizio novecento, il fior fiore dei villeggianti romani, e non soltanto, e giustifico anche perché, lentamente ma inesorabilmente, del fulgore di un tempo siano rimaste solo le cartacce delle pizzerie prese d’assalto dai pendolari del sabato e della domenica.

Posseggo anche alcuni libri di archeologia e di divulgazione spiccia che rileggo spesso e che parlano di com’erano Anzio e Nettuno in un più remoto passato, dai quali risalta l’incredibile splendore che hanno condiviso le nostre due cittadine al tempo dell’antica Roma.

Già a partire dall’età repubblicana e sotto l’impero, soprattutto sotto Nerone, la fama e la bellezza erano tali da far adombrare ad uno degli imperatori, Caligola se non ricordo male,  l’ipotesi di trasferirvi la capitale.

Perciò, spesso, ad esempio ritornando da una delle nostre uscite, quando transitiamo per la Campana e sullo sfondo si gode la vista delle due cittadine, mi capita di sognare di come potessero apparire allora ad un ipotetico viaggiatore che stesse percorrendo la Via Anziatina, che ancora corre e si distingue per un breve tratto accanto all’attuale strada “asfaltata”. Chissà, molto probabilmente, già da lì si riuscivano ad individuare gli splendidi palazzi ed il luccichio dei marmi, i templi adorni di statue e le stupende e numerose ville gentilizie che si snodavano lungo la costa.

Lo stesso mi succede sempre quando si transita, a Nettuno, per lo stradone dove attualmente si tiene il mercato del giovedì. Fateci caso, la zona, a partire da dietro la stazione ferroviaria ed includendo l’area occupata dal centro commerciale,  si presenta come un grande catino, degradante verso il misero alveo di oggi del fiume Loricina, un tempo molto più ampio. Quasi certamente, prima ancora che il disboscamento dissennato di età romana e che il conseguente dilavamento di terra e sabbia ne causasse l’impantanamento prima e l’interramento definitivo poi, qui era ubicato l’antichissimo porto di età pre-romana di Caenon, il Cenone. Sull’altura prospiciente, più o meno in corrispondenza di Creta Rossa, l’abitato volsco. Ad occhi aperti allora vedo la moltitudine di navi dei feroci pirati anziati, che qui avevano la fonda, pronte a prendere il mare per le loro scorrerie, prima che Roma li conquistasse e rendesse il porto di Caenon inagibile.

Alla Campana, così come nello stradone di Nettuno, solitamente i sogni sono interrotti dai sobbalzi della bicicletta e dalla tensione nervosa e dall’attenzione necessaria a cercare di evitare, per lo più inutilmente, le incredibili asperità della strada, simbolo, fra il resto, di un degrado e di un abbandono iniziato ancor prima della caduta dell’impero romano e proseguito per tutto il medioevo, e che i numerosi e lunghi secoli trascorsi da allora, evidentemente, non hanno ancora contribuito a sanare del tutto. Chissà quanto tempo ancora ci vorrà e se mai basterà.

Io,  per intanto, continuo a vivere i miei sogni ed a ritenermi fortunato del fatto che nessuno, almeno questi, potrà mai portarmeli via.

 

 

                                                                                              Lo Scozzese