C’è stato un periodo, a cavallo fra
gli anni sessanta e settanta, durante il quale andava assai in voga tutto ciò
che riguardava i paesi della Penisola Scandinava, prima fra tutti la Svezia.
Si era instaurata una sorta di profonda ammirazione per quanto
questi rappresentavano: opulenza, organizzazione, ordine, civiltà e…”dulcis in
fundo”, libertà sessuale.
Erano tempi quelli nei quali da noi imperava ancora una
certa restrizione in proposito, non ancora scardinata dal tumultuoso vento di
liberalizzazione dei costumi che è soffiato successivamente.
Così, per esempio, incuriosivano tantissimo il genere
maschile, alcuni particolari film documentario che venivano da quei paesi, i
quali, col falso intento di istituire una sorta di filone rivolto all’educazione
sessuale, nascondevano in realtà sporchi obiettivi di cassetta, richiamando
nelle sale cinematografiche folle di connazionali affette da maschile italico
prurito.
Si parla di quello stesso pizzicore che le donne di oggi si affannano a stimolare
nell’altro sesso senza molto più successo, dopo aver esposto alla luce del
giorno ogni centimetro di pelle rimasta ancora coperta.
Militari, adolescenti, sbarbatelli disposti anche a
falsificare la data di nascita sul proprio documento di riconoscimento pur di
poter vedere qualche pezzettino d’epidermide in più, giovani uomini e più
maturi e insospettabili padri di famiglia, in tutti si era instaurato il comune
senso secondo il quale la donna nordica era, sotto tutti gli aspetti ed a torto
aggiungerei io, migliore di quella mediterranea.
Chiunque avrebbe dato non so che cosa pur di essere “messo
sotto” da una bionda vichinga, chiunque sottolineo, tutti compresi.
Io da parte mia, tanto per non dare l’impressione di volermi
tirare da parte, voglio confessarvi che in gioventù ho avuto per le mani
qualche svedesina. Ne ricordo con piacere ancora i nomi e l’aspetto: Anne,
Lotta, Minnie, ma a parte questo (a buon intenditor poche parole), di loro non
ricordo nient’altro.
Non immaginavo proprio di dover diventare stramaturo per
poter veder realizzato il comune sogno di allora, quello che mi accostava alla
maggior parte del genere maschile di quel tempo: essere messo sotto da una
svedese.
E’ successo recentissimamente. Se mi concedete un po’
d’attenzione e di pazienza voglio raccontarvene i retroscena.
Un giorno di questi, circa a metà settimana come è mia
consuetudine, decido di uscire per un giro, in bicicletta s’intende.
Mi alzo di buon mattino e, dopo aver dato un’occhiata al
“parco bici” (che volete mai, le passioni vanno adeguatamente coltivate), non
so per quale consiglio venuto dall’alto decido, come un sultano che sbircia fra
le tende nel suo “harem”, che oggi
l’eletta, la favorita, la prediletta, sarebbe stata la Bianchi d’acciaio. E
meno male! Capirete più avanti il perché.
L’itinerario prevedeva la visita ad una strada che ricordo
di non avere mai percorso ma che è stata inclusa in una manifestazione che si terrà il prossimo maggio e della quale
vorrei tacere. L’obiettivo era quello di verificarne la percorribilità e la
bontà del manto d’asfalto. E’ abbastanza vicina, per cui una volta adempiuto al
compito che mi ero proposto decido che forse avanzerebbe tempo per un caffè al
mare. Lo sapete meglio di me, il mare per antonomasia per noi è quello del Lido
di Latina o, meglio ancora, quello confinante con Borgo Grappa. Non passa
neanche qualche giorno che già ci prende la nostalgia. Un richiamo
irresistibile, al pari di quello delle mitiche Sirene d’Ulisse.
Così, innesto il pilota automatico alla bicicletta, tolgo le
mani dal manubrio, mi limito a pedalare ritmicamente e lascio che essa mi porti
dove sa.
Si ferma, naturalmente senza che io glielo chieda, al
consueto bar vicino alle giostrine dove alligna fior di biondina nostrana.
Tranquillamente sorseggio un caffè guardandomi intorno, sbocconcello una fetta
di crostata alle mele, poi decido che è ancora presto e risalgo in sella,
sempre con l’ausilio del pilota automatico.
Passa un amico, lo saluto e m’aggrego. “Dove hai lasciato
gli altri?”, domanda di prammatica. “Stanno avanti”, è la risposta. Fine del
dialogo ed entrambi ci lasciamo trasportare dalle biciclette verso dove tutte
le nostre biciclette sanno, quand’ ecco che davanti a me intravedo la sagoma di
due figure che pedalano su due strani attrezzi muniti di enormi borse laterali.
Cavolo, penso, due escursionisti!
La loro velocità è tale che chiamarla così è veramente un
azzardo. Sembrano infatti arrancare con tutto quel po’ po’ di peso dietro, alla
media di cinque pedalate al minuto, al punto che li raggiungiamo
rapidissimamente ed altrettanto rapidamente li oltrepassiamo.
Ma ecco che proprio in quel mentre nel senso opposto
sopraggiungono gli amici del mio occasionale compagno di viaggio. Un
rapidissimo “ahoo!” ed il mio collega è già dietro di loro. Decido che anche
per me è arrivato il tempo di rientrare e che, aggregandomi, lo farei anche in
buona compagnia, per cui accosto a lato e freno decisamente, poi, com’è
normale, prima di cambiare direzione do un’occhiata dietro per vedere se per
caso non sopraggiungesse qualcuno. E’ proprio in quel momento che mi accorgo
con terrore che una sagoma quasi indistinta con testa e busto umani, con le
ruote come appendici inferiori e due borsoni debordanti ai lati, quasi a
continuazione dei grossi glutei, si avvicina a velocità terrificante, prima
insospettabile. Si tratta del ciclista di testa dei due che avevo appena
superato, il quale, non so se per il troppo peso trasportato, per la stanchezza
o per imperizia, dava evidenti segni di non riuscire a controllare il proprio
mezzo.
Appena il tempo di avvedermi del pericolo incombente e,
sebbene io me ne stessi al margine della strada, per i fatti miei, per usare
un’espressione che mi sforzo di mantenere il meno colorita possibile, quella
massa mi piomba addosso facendo rovinare a terra me insieme alla mia povera
Bianchi.
Realizzo immediatamente: è una donna, una montagna di donna,
bionda, rubiconda, florida, l’immagine della salute. Avrà non meno di una
sessantina d’anni.
Mi è addosso e mi copre con tutta se stessa e ne avverto il
forte peso e, come se ciò non bastasse, mi è addosso anche la sua bicicletta,
anzi, meglio, il suo carro armato!
Geme, ma solo per lo spavento visto che nessuno di noi due
si è fatto niente di male, nel momento in cui tenta di estrarre un piede dal
groviglio di telai, ruote e manubri che si è venuto a creare.
Io, da parte mia, sono confuso, non mi rendo bene conto
dell’accaduto, mentre, in apnea, tento di estrarre la testa dal suo seno
prorompente per poter respirare.
“Signora mia”, esclamo una volta riguadagnata l’aria aperta,
“ma come si fa!”. Lei non risponde ma si rivolge direttamente al compagno di
viaggio, il marito evidentemente, e comincia a scambiare con lui battute in una
lingua indecifrabile che tento di individuare, ma senza successo. Sembra un
misto di danese, olandese, tedesco. Boh! Qualcosa del nord Europa, senza
dubbio.
Il resto del tempo lo passiamo io da una parte e loro
dall’altra a cercare di sistemare le biciclette per poter proseguire. Mi
accorgo che il carro armato della “lady” ha subito l’unico danno di vedere
uscita dalla sua sede una guaina freno, che rapidamente le sistemo, mentre io
ho il cerchio della ruota posteriore piegato proprio nel punto in cui la
signora si è carinamente adagiata col proprio deretano.
Mannaggia! Prendermela con lei, con il destino, con me
stesso, con Borgo Grappa? Inutile a quel punto; meglio prenderla con filosofia.
Trovo addirittura la forza di familiarizzare. “It’s all
ok? Where you come from…where are you going to? (Tutto a posto? Da dove venite…dove state andando)”.
“Sweden…Sweden” (Svezia…Svezia), è la risposta.
“Porca miseria”, penso io,”era ora!”
Finalmente messo sotto da una vichinga svedese!. Che sventola, ragazzi!
Lo
Scozzese