La sagra della pisella
(tra il sacro ed il profano)
Ci siamo!
Con l’estate ormai morente ma anche e soprattutto con l’ autunno alle porte esplodono le sagre.
A cosa vi fanno pensare? D’andarci in bicicletta? No! Se permettete vi accenno io a cosa dovrebbero “farvi”, e con tutta probabilità, non
vi “fanno” pensare.
Il termine “sagra”, ancora una volta, ha origine latina e
precisamente dal termine “sacrum” che vuol dire
“sacro”; “sacra” al plurale.
Sacro quindi, perché in origine le
sagre si distinguevano dalle normali altre feste per la spiccata connotazione
religiosa. Erano infatti dei momenti di comunione fra l’uomo con tutto ciò
che poteva e doveva essere considerato cultuale.
Si celebravano negli spazi di fronte ai templi, così come successivamente, in epoca cristiana, era invalso l’uso di
festeggiarle nelle piazze antistanti le chiese che, proprio per tale ragione,
presero il nome di sagrati.
Cosa rimane oggi dei connotati di
allora? Rimane solo la festa, la celebrazione non più del sacro, bensì solo ed
esclusivamente del materiale, del profano. Il pretesto di un
nome per reclamizzare un particolare prodotto locale, facendo leva sul
particolare sentimento nazionale che ci trova tutti uniti sotto l’insegna del “magnà”.
Quando si tratta di cibarsi, pare che
tutte le differenze, o presunte tali, spariscano come d’incanto. Le italiche bocche si
riconoscono allora tutte uguali, pronte
a spalancarsi, come fossero comandate da un istinto
primordiale, di fronte a qualsiasi cosa abbia il connotato, anche lontano, di
“edule”. Folle di connazionali ai quali risale
dall’inconscio collettivo il ricordo della fame patita in guerra o sotto la
dominazione straniera si ritrovano tutti insieme a spartirsi, da buoni fratelli
quali alla fine siamo, quanto viene loro offerto. Soprattutto e meglio se “a gratis”.
A compiere il miracolo concorrono le varie “Sagra della
cerasa”, “Sagra del carciofo”, “Sagra delle alici”, “Sagra del fungo porcino,
della castagna, dell’uva, del vino, del gorgonzola, delle rane, del risotto,
del salame d’oca, dei fagioli e cotiche, dell’agnolotto, del tartufo nero, del
cioccolato, della patata, della lumaca, del lambrusco, della salamina da sugo, della zucca, dello stoccafisso, del caciucco, delle fave, del pecorino, e...mi manca il fiato”.
Ogni regione, ogni paese ha la sua particolare sagra. E sotto sotto c’è sempre qualcosa
che ” se magna”.
A proposito: ammazza se sono buone le fave col pecorino! Le
avete mai provate?
Sono certo però, che se qualcuno, per burla, s’inventasse anche una “Sagra della
ghianda” , che è amara come il fiele, tutti
accorrerebbero felici.
Detto questo, ora, a tutti coloro
che mi leggono, amanti delle sagre o meno, vorrei ricordare e propagandarne una
vicinissima in senso temporale con un’esortazione:
”Italiche folle, amanti della tradizione dei festeggiamenti,
portatrici sane di una fame atavica, esploratrici dello stivale alla continua
ricerca degli angoli più sperduti dove si solennizzi qualcosa di commestibile, foss’anche uno gnocco balordo, lasciate da parte le consuete
abitudini mangerecce e fate in modo di non perdere la regina delle sagre di
questo periodo: La Sagra della Pisella (sic)!
Celebrata in un’amena località termale del nord Italia, non
gode come spazi né del piazzale antistante un tempio né del sagrato di una
chiesa, bensì usurpa quello bellissimo, stile
“liberty”, appartenente di diritto ad una moltitudine pagante di speranzosi
compatrioti che agognano la scomparsa della propria annosa cellulite, del
fastidioso catarro bronchiale o che amano soltanto farsi ripetutamente
palpeggiare a suon di massaggi melmosi. Ci saranno una turba di stupende
ragazze, come è difficilissimo incontrarne in natura,
rarissime come può essere rara la mia vicina di casa o l’impiegata che mi
riceve sorridente quando vado al lavoro.
Sfileranno lentamente ora vestite, ora
meno, secondo un copione di una noia mortale. A qualcuna sarà data facoltà di
aprire bocca e dimostrarsi fine dicitrice.
Non sono roba che si mangia, ma uno stuolo di guardoni
camuffati da intenditori, avranno l’ingrato compito di farle ingerire dal buio
dell’anonimato. Una sola, detta miss, si
salverà e sarà tenuta in frigo, ma solo perché l’anonimato abbia la possibilità
di cibarsene l’anno successivo. Non si sa mai; fosse anche quello un anno di piselle magre...”