La magia gialla
Il fascino
discreto del Tour de France, il più grandioso spettacolo attuale legato alle
due ruote.
Come e perché Henri Desgrange abbia avuto l’idea di
allestire un carosello sulle strade del proprio paese, rimane difficile da
scoprire.
Desgrange era un letterato più che un giornalista, però
amava lo sport che aveva praticato in gioventù insieme alla ginnastica ed il
podismo: amava il ciclismo. Ma ciò che
conta di più è il fatto aveva delle enormi doti organizzative.
Al tempo in cui nella sua mente cominciò a farsi strada
l’idea di una grande prova a tappe, il ciclismo era già molto popolare e
proponeva avventure massacranti.
Albeggiava il novecento ed i più coraggiosi, innamorati del
giovane mezzo meccanico a due ruote, si cimentavano già da un decennio nella
Bordeaux-Paris e nella Paris-Brest-Paris, quest’ultima superiore ai
milleduecento chilometri e diventata poi una classica del ciclismo amatoriale
dei giorni nostri.
Fu allora che Desgrange osò la grande impresa e regalò al
ciclismo la corsa più spettacolare, più affascinante, seppure nei suoi toni
contenuti, che sa donare l’immortalità sportiva.
Fra mille tribolazioni, non ultime quelle originate
dall’allora generale avversione da parte dei servizi di sicurezza, il Tour de
France nasce comunque nel 1903; lo lancia il giornale Velò, grazie proprio all’interessamento di Henri Desgrange.
La prima edizione si disputa in sei tappe con una media
giornaliera superiore ai 400 chilometri: la frazione più lunga raggiunge quota
467, e la lunghezza complessiva tocca il tetto dei 2.428 chilometri; un’impresa
che i pionieri compivano come veri forzati delle due ruote.
La classifica è per somma dei tempi e la vittoria arride ad un
italiano della valle d’Aosta, regione che però allora era francese. Si tratta
di un certo Maurizio Garin all’incredibile media oraria, considerato il
tracciato ed i mezzi di allora, di 25,679 km/h. Un apripista formidabile.
La seconda edizione sarà consegnata alla storia assieme ad un
corollario di guai e polemiche che faranno sì che sia addirittura il quinto
classificato a vincere.
L’anno successivo l’organizzazione propone una novità emozionante:
le località d’arrivo delle tappe saranno tenute segrete sino al mattino d’ogni
giorno di gara e comunicate solo al ritrovo per la partenza.
E’ questo l’anno nel quale Desgrange va alla ricerca delle
prime grosse difficoltà, delle prime montagne come il Ballon d’Alsace, il
Leffey ed il colle Bayard, e nel quale la classifica cambia volto: non più
somma dei tempi ma somma dei punti. Il nostro Giro d’Italia esordirà poi con
questa stessa formula.
Il successo spronerà Desgrange ad ingigantire ulteriormente
la sua creatura, così il Tour oltrepasserà ben presto i 4.000 chilometri.
E’ da questo momento che la storia della grande corsa a
tappe francese s’incrocia con la nostra, quella dei numerosi italiani che, con
onore, contribuendo anche a formarne il volto e la celebrità, si avventureranno
lungo quelle strade che, d’anno in anno, andranno a cercare grandi e
celeberrime montagne come Il Galibier e l’Aubisque: i Pirenei che si aggiungono
alle già veterane Alpi.
Grandi montagne, ma meno grandi del previsto perché già nel
1910 i mezzi meccanici possono contare sull’utilizzo della ruota libera, anche
se per certe tappe, come la Brest-Rochelle di 470 chilometri, nel 1911 gli
organizzatori obbligano i concorrenti a gareggiare col pignone fisso; una
formula presto dimenticata.
Una serie d’errori organizzativi, come le tappe troppo
lunghe che abbassano notevolmente la media e la sparizione, per un certo
periodo, delle squadre legate alle marche, appannerà per un certo periodo la
popolarità della Grande Boucle, l’appellativo con il quale è anche conosciuto
il Tour.
Nel corso degli anni venti sarà, a tale proposito, il nostro
Ottavio Bottecchia, famosissimo e conosciuto dai francesi come Botescià, a risollevare le sorti incerte della manifestazione.
L’eco delle sue imprese, suscitata in Italia a fronte di
alcune sue numerose e proverbiali sfortune occorsegli nel corso di alcune tappe,
spinge ad aprire a suo favore addirittura una sottoscrizione popolare a quota
fissa di una lira. Curiosità: la lista è aperta niente di meno che da Benito
Mussolini.
La sua fama, viva ancor oggi, culminerà con la vittoria del
1924, segnata da imprese memorabili: si dice che non si sia mai più visto
nessuno scalare con la sua stessa foga e potenza i due colossi pirenaici
dell’Aubisque e del Tourmalet.
Occorrerà fare un gran balzo ed arrivare fino al 1938 per
ritrovare un italiano, il grande Gino Bartali, a sostenere con indubbio
prestigio le sorti nazionali. Splendido esempio di longevità sportiva, Bartali
concederà il bis ben dieci anni dopo.
Tale e tanta è la fama del corridore assieme a quella della
corsa che in Italia, per tale ragione e proprio in quell’anno, sarà evitata la
guerra civile in occasione della situazione di estrema tensione scatenata
dall’attentato a Palmiro Togliatti.
Verranno poi gli anni di Coppi con l’apoteosi del 1949,
l’anno ricordato come quello della “crisi di Coppi” il quale, arrivato sulla
soglia del ritiro per una serie di disavventure dopo aver accumulato un ritardo
di 36’35” dalla maglia gialla, farà il miracolo di arrivare primo a Parigi.
Concederà il bis nel 1952.
L’ultimo Tour “italiano” è stato quello del 1965, vinto da
Felice Gimondi, neoprofessionista di soli 23 anni.
Finiscono qui, speriamo solo per il momento, i riferimenti
diretti a quegli italiani che si sono maggiormente distinti nelle varie
edizioni del Tour, ma perdura senza dubbio il prestigio e la fama di una gara a
tappe leggendaria.
Lo
Scozzese