La favola di Aris 

 

Viveva non molto tempo fa in Grecia, in Attica per la precisione, un giovane ragazzo. Si chiamava Aristòpoulos Kalispèras, ma i suoi numerosissimi amici ed i suoi parenti lo chiamavano semplicemente Aris.

Aris adorava la bicicletta. Ne aveva una bellissima, color fuoco, con le cromature lucide come specchi che riflettevano ogni minimo raggio di luce lanciando riflessi accecanti che creavano, sotto il sole, l’effetto di un diamante.

L’aveva acquistata in un mercatino di rigattiere ad Atene, con i pochi risparmi che era riuscito a mettere da parte.

L’aveva smontata, pulita pezzo per pezzo con un morbido pennello e petrolio, lucidata con olio di gomito, e rimontata con attenzione e precisione, tanto da restituirgli uno splendore degno di una bicicletta nuova di zecca.

Era innamorato di lei forse più che della sua bella ragazza Maria, la quale, poverina, in più di un’occasione aveva apertamente manifestato la sua gelosia nei confronti di questa concorrente un po’ fuori dal comune.

Faceva il garzone da un meccanico del paese ed approfittava di ogni pausa del lavoro e di ogni altro momento libero, per inforcare la sua amata bicicletta e correre a perdifiato per le strade polverose delle campagne circostanti e per arrampicarsi come uno scoiattolo su per le erte colline dell’Attica; sempre felice e sorridente, come se fosse la prima volta.

E fu così che anche quel giorno si alzò alle prime luci dell’alba, si preparò di tutto punto, ed andò piano a svegliare la sua bicicletta color fuoco per invitarla all’ennesima sgroppata prima di recarsi al lavoro.

Apri lentamente l’uscio di casa per non svegliare i propri genitori, diede un’occhiata fuori ed alzò gli occhi al cielo.

La luce mattutina, più scarsa del solito non faceva presagire nulla di buono; il cielo, infatti, malgrado la poca luce, lasciava già indovinare d’essere grigio di nubi cariche di pioggia.

Rimase costernato. “Ma come”, si chiese, “fino a ieri sera c’era uno splendido sereno, ed ora?”. Ma queste, purtroppo, sono cose che capitano, in un autunno ormai inoltrato fra le colline dell’Attica.

Malgrado ciò egli non manifestò nessuna intenzione di desistere; non era la prima volta che s’avventurava con cattivo tempo e ne veniva miracolosamente risparmiato. Quindi con un solo balzo saltò sulla bicicletta, agganciò le cinghiette dei pedali con rapidi gesti ed incominciò a menare le gambe su e giù di buona lena mentre sua madre, che nel frattempo si era svegliata per i rumori che Aris aveva provocato malgrado tutte le attenzioni, e per i sordi ma distinti brontolii di tuoni che provenivano da lontano, cercava di richiamarlo: “Aris…, torna indietro…, ti bagnerai tutto, sta per piovere!”

Non ci fu niente da fare. Egli avvertì forse fra lo stormire delle foglie al vento una indistinta voce che lo chiamava, ma era ormai lontano e continuò per la sua strada indirizzandosi verso i campi di Agròtis, il contadino suo vicino.

Scorreva lì accanto un fiume non molto grande sugli argini del quale erano ricavate due strade abbastanza comode per un bicicletta. Ne imboccò una decisamente, come era suo solito fare; gli piaceva molto pedalare guardando lo scorrere lento dell’acqua.

Non passò molto tempo ed egli ebbe chiara la sensazione che la luce piena del giorno tardava a prendere il sopravvento su quella antelucana, e si chiese perché.

La risposta gli venne chiara quando si decise a spostare lo sguardo dalla ruota anteriore e dalla strada ed a guardare verso l’alto. Il cielo adesso appariva livido e plumbeo ed i tuoni s’avvicinavano sempre di più.

Una grossa nube in particolare, sembrava aver assunto le sembianze del faccione corrucciato di Giove Pluvio; molto probabilmente ce l’aveva su con Aris che aveva osato sfidarlo ancora una volta.

La pioggia arrivò all’improvviso, a catinelle. Ogni goccia era come un vero e proprio secchio d’acqua che si riversava sulla testa e sul resto del corpo del malcapitato.

Inutilmente egli cercò di sfuggire accelerando nel tentativo di lasciarsi dietro il terribile temporale, anzi, l’avanzamento sulla strada, ormai diventata un fiume d’acqua e di fango, era sempre più problematico; la bicicletta era diventata quasi ingovernabile.

Aris, che pure era ormai un provetto ciclista, ad un tratto perse l’equilibrio, cadde di sella e ruzzolò giù dall’argine verso il letto del fiume senza riuscire ad  opporre alcuna resistenza.

Si ritrovò in men che non si dica immerso in un’acqua fredda e limacciosa. Fortunatamente era anche un provetto nuotatore: spesse volte, da fanciullo, lui ed i suoi amici si erano radunati per affrontare insieme la corrente nelle calde e soleggiate giornate estive.

Ma questa volta ci mise un po’ per avere la meglio sullo scorrere impetuoso dell’acqua che la pioggia battente aveva alimentato.

Con un colpo di reni riuscì a malappena ad afferrare alcune canne che sporgevano dalla riva, proprio in corrispondenza del terreno nel quale si trovava l’ovile di  Empedocles, il pastore.

Si tirò faticosamente su, grondante, ringraziando la sua buona stella che l’aveva aiutato. In un attimo la pioggia battente lavò via dal suo corpo, tutto lo sporco che il fiume gli aveva appiccicato addosso.

Intravvide subito Il gregge di Empedocles; era al riparo sotto un grosso albero dalla folta chioma.

Le pecore non si curarono minimamente di lui, salvo tre che lo stavano guardando con uno sguardo che non poteva in alcun modo essere definito “ovino”.

Non ci mise moltissimo a realizzare. Si trattava di quello di Skulì, Psìttacos ed Argo, i tre terribili cani da pastore bianchi messi a guardia del gregge.

Non era proprio il caso di pensarci due volte. Aris se la diede immediatamente a gambe mentre le tre pseudopecore gli erano già alle calcagna.

Ancora una volta la fortuna l’aiutò e volle che lui imboccasse la strada dell’argine nel senso del ritorno e che ritrovasse la propria bicicletta, nel punto esatto nel quale l’aveva abbandonata scivolando nel fiume.

Un balzo ed era già in sella, e solo pedalando come un forsennato riuscì a seminare i tre terribili guardiani che lo inseguivano con la coda alzata che sventolava al vento, come un minaccioso stendardo di guerra.

Sporco e zuppo come un pulcino guadagnò la strada di casa rimuginando sull’accaduto, giudicando che, al di là dei pericoli corsi,  non era stata un’avventura poi così spiacevole, anzi gli salì dal petto una sonora risata e ridendo ripetè più volte fra sé e sé: “Ena, èko kanéi to anakùklosi. Duo, èko kanéi to kolùmbisi. Tria, èko kanéi to odéghisi. Eureka, éko efeùrei to TRIATHLON! (Uno, ho fatto ciclismo, due, ho fatto nuoto, tre, ho fatto corsa. Ho trovato , ho inventato il TRIATHLON! ( n.d.t)”.

La cosa gli piacque a tal punto che, da quel momento in poi, Aris non si accontentò più solo di andare in bicicletta ma, quando poteva, si faceva anche una nuotatina di almeno alcune centinaia di metri ed una corsetta di qualche chilometro.

Col tempo imparò anche che forse era meglio anticipare la nuotatina rispetto alle altre due discipline, per evitare di doversi gettare in acqua grondante di sudore col rischio di beccarsi una polmonite.

Aris si divertì tantissimo per molti anni a venire. Purtroppo però, dovette tenere la sua amata bicicletta con un difetto irrecuperabile, derivato dalla sua rovinosa caduta sull’argine del fiume; il piantone si era piegato un po’ in avanti formando col tubo orizzontale un angolo un po’ più ampio rispetto a prima: dai settantatre gradi circa era passato a settantasei e passa.

Questo però non gli importava, la bicicletta era meno comoda ma ben più aggressiva! Aris risolse anche brillantemente il conseguente accorciamento della distanza fra la sella ed il manubrio, montando due appendici a forma di corna di bue su quest’ultimo. Non a caso faceva il garzone da un meccanico.

Conclusione: Non tutti i mali vengono per nuocere ed il TRIATHLON è fratello carnale del ciclismo.

 

Settembre 2006                                                                                                                Lo Scozzese