L’istinto primordiale
Prendiamo una rana e cerchiamo di
tenerla ferma da qualche parte, dentro una scatola magari, facendo in modo che
non spicchi un bel salto per andarsene “fuori dalle
scatole”. Mettiamogli davanti un’appetitosa mosca morta ed aspettiamo per vedere
se la mangia. Garantisco che non succederà proprio un bel niente.
Prendiamo ora la stessa mosca, leghiamola in qualche modo ad
un filo per cucire di cotone e facciamola dondolare davanti alla rana di prima.
Vedrete che adesso, non appena la mosca sarà a tiro, con una bella linguata la
rana ne farà un bel boccone. Stesso esperimento potremmo
fare con un bel ghepardo ed una capretta. Forse meglio però, in questo caso,
utilizzare per l’esperimento il gattino di casa ed un topolino posticcio di pezza;
alla fine si tratta pur sempre di un felino, molto meno pericoloso per giunta,
ed inoltre non ci andrà di mezzo una povera capra che, senza dover subire tali
esperimenti, ha già abbastanza guai a causa degli umani. Finché
il finto topolino sarà tenuto fermo il gatto si limiterà a guardarlo senza
molto interesse, ma appena messo in moto, l’istinto di corrergli dietro sarà per
lui incontrollabile.
Deduzione ovvia: di solito l’istinto del predatore risponde in
maniera adeguata ed automatica solo quando il cibo, la
preda, è in movimento.
L’uomo si ritiene superiore rispetto a tutte le altre
creature viventi, e forse in parte ha ragione, anche se fino ad ora è stato molto
più facile dimostrare il contrario, ma questo non è sicuramente il caso dei
ciclisti i quali, al pari di una rana o di un gatto, rispondono a bassi istinti
primordiali.
Ad esempio, se un singolo in bicicletta od un gruppo
intravede un altro singolo od un altro gruppo fermo al margine della strada,
non succede un bel niente, ma è sufficiente che l’elemento appaia in movimento
per scatenare un irrefrenabile istinto di raggiungerlo nel minor tempo
possibile. Ci vuole un essere superiore, un individuo dalla mente eccelsa e con
un attento e razionale equilibrio unito al controllo delle proprie azioni
perché ciò non succeda, ed inoltre bisogna che lo stesso sia anche capace di vincere
il cosiddetto e temibile “effetto di rinculo” per evitare l’equazione: mancato inseguimento
più mancato aggancio uguale a terribile rimorso di coscienza.
Nessuno ne è esente, sottoscritto
compreso, lo confesso. E’ solo che talvolta, quando mi è capitato di aver ceduto
ai bassi istinti, ho certo adempiuto al mio dovere di ciclista
tipico ed evitato il rimorso da effetto di rinculo, ma poi ho dovuto subire al
suo posto una conseguenza altrettanto spiacevole e che ora descriverò.
Tanto per creare un’ambientazione coerente, immaginate, per
esempio, di vedermi nei dintorni di Borgo Grappa e pensate che io voglia proseguire per la località di Sacramento oppure per Sabaudia. Una delle strade da me privilegiate è quella che
passa all’interno, per il cosiddetto consorzio Bella Farnia, una zona ricca di
coltivazioni e di serre. Discorro del più e del meno con i miei compagni di
viaggio quand’ecco che da lontano si intravede un gruppetto
in bicicletta, un piccolo corteo che avanza a bassissima velocità. Una preda
fin troppo facile. A quel punto il dialogo diventa monosillabico e come se
tutti rispondessero ad un unico tacito comando, la velocità aumenta
progressivamente e con essa, diminuisce vistosamente
la distanza dal drappello. Strane maglie, strani caschi, strane biciclette,
strano modo di pedalare: gambe larghe, appoggio dei pedali più sui calcagni che
sui metatarsi, dieci, massimo quindici pedalate al
minuto. Un cigolio metallico confuso si fa sempre più distinto, una ruota
posteriore ancheggia in modo vistoso e da lì a breve
il gruppo si rivela per quello che effettivamente è: una comitiva di abbronzantissimi
extra-comunitari scamiciati, con le ciabatte od al massimo coi sandali ai
piedi, cappelletto sdrucito o elegante turbante al posto del casco, biciclette
secolari fatte di un agglomerato di purissima ruggine tenuta assieme, in
qualche modo, dall’ultimo residuo di vernice dal colore indefinibile.
Una beffa. Fatica sprecata. Passo avanti facendo anch’io
“l’indiano”, ma non posso non provare uno spiacevole senso di vergogna: io, sfrontato
cicloturista del fine settimana, a spasso, agghindato e dotato di mezzi tali da
poter sembrare quasi uno vero, alle prese con poveri disgraziati, scuri più per
la polvere che mangiano in mezzo ai campi coltivati o
che si mischia sulla pelle insieme al sudore della fatica, piuttosto che per motivi
razziali.
Intendiamoci, io sono di quelli che non sopportano
l’arroganza di certi immigrati che pretendono che sia la nostra società ad adeguarsi ai loro costumi e non viceversa. Non tollero
poi chi viene nel nostro paese da clandestino senza la certezza di un lavoro,
per delinquere o che lo fa giustificato da ragioni di pura sopravvivenza, chi
mendica a tutti i santi semafori, chi pretende assistenza, senza contribuzione,
da una società che non è in grado ancora di garantirla neanche ai propri
connazionali. Però a vedere questi ragazzi, giovani, costretti lontani dalle
loro case d’origine, che vivono una vita sicuramente fatta di fatiche e di
stenti, se non proprio di sfruttamento, al fine di garantirsi un reddito
sufficiente per loro e per le loro famiglie rimaste nel loro paese, mi si
stringe il cuore e mi intenerisco, abbasso il capo e
cerco di allontanarmi il più presto possibile per perderne la vista e togliermi
dalla loro.
Lo
Scozzese