I ciclisti di Nettuno parlano latino 

 

Questa voglio parlarvi di un argomento diverso dal ciclismo, anche se qualche relazione con esso è riscontrabile. Dal titolo si capisce infatti che vi sono coinvolti i ciclisti di Nettuno.

Vorrei provare a fare un giochetto insieme a voi, un giochetto di carattere filologico.

Saprete senz’altro che la filologia è la scienza che studia le lingue, la loro derivazione e le relazioni con la vita intellettuale di un popolo.

Ebbene, utilizzando criteri strettamente filologici, voglio provare dimostrarvi che il ciclista nettunese tipo, quello verace intendo, parla correntemente latino.

L’altro giorno ho avuto la fortuna di incontrare quelli di CIPPE e, chiamato da questi a gran voce, mi sono aggregato con entusiasmo.

Durante il percorso, uno di costoro chiacchierava con un altro e se n’è uscito con una delle più classiche espressioni nettunesi quando, nell’ambito del discorso, ha detto:”Allora…chìo fregno… e chiàtro…”. Vi suona?

Subito m’è venuto spontaneo fare mentalmente una rapida analisi linguistica. Quasi un gioco filologico.

Ho pensato di provare a coinvolgere in questo anche voi, utilizzando lo spazio che m’hanno voluto concedere su questo sito

Prima però di avventurarci nel nostro ragionamento, credo sia necessario fare alcune brevi premesse.

Tutti i dialetti dello stivale hanno una diretta derivazione dal latino, non esattamente da quello classico che si studia al liceo, bensì dal latino volgare.

Per latino volgare, attenzione, non si intende un latino intriso di parolacce, bensì la lingua del volgo, del popolo, quindi il latino parlato.

Già ai tempi dell’antica Roma esso cominciò ben presto a diversificarsi dal latino classico.

Diventò una lingua molto più colorita nella quale avevano anche luogo caratteristiche di pronuncia diverse e che faceva uso, in certi casi, anche di una terminologia più consona al rango della gente della strada la quale, sicuramente, non poteva avere conoscenza dei vocaboli letterari, dei sinonimi raffinati e dei procedimenti stilistici e retorici usati, per esempio, da un Cicerone.

Se due parole esprimevano più o meno lo stesso significato, sicuramente la scelta cadeva su quella più popolare, espressiva, efficace e corposa in quanto a sonorità.

A tale proposito vorrei accennare, ad esempio, all’uso di “casa”, che significava propriamente capanna in latino classico, al posto di “domus”, o di “bucca”, che aveva significato di guancia, piuttosto che “os” o ancora di “testa”, cioè coccio, al posto di “caput”.

Ma non ci perdiamo, il discorso sarebbe troppo lungo; ritorniamo al nostro giochetto.

Vorrei dimostrare che quando il nostro amico ha detto: “…chìo fregno… e chiàtro”, ha semplicemente detto, in latino volgare, una frase che in latino classico sarebbe suonata esattamente così: “…ecce hic illum frenulum… et ecce hic alterum…”.  Ora cercherò di convincervi del perché.

Cominciamo col dire che “ecce” allora si pronunciava “ekke”. Non esisteva ancora la cosiddetta “palatizzazione” che ha fatto in modo che col tempo si sia creata una differenza fra la pronuncia della “c” davanti ad “i” od “e” rispetto a quella della stessa davanti ad “a”, “o” ed “u”.

Un altro fenomeno da tenere in considerazione era la cosiddetta “agglutinazione” che ha comportato che, per facilità e rapidità di pronuncia, si tendesse a non considerare ed ad eliminare le complicanze fonetiche.

Ritornando al nostro caso, è facile allora concludere come “ecce hic”, o meglio “ekke ik”, possa essere diventato prima “ke i” e poi direttamente “ki”.

Un altro fenomeno riscontrabile già in tempi molto remoti nel volgare è la perdita delle finali causata anche dal decadimento di una caratteristica essenziale del latino, e cioè delle declinazioni, che ne facevano direttamente uso. Esse infatti, lasceranno il posto all’uso dell’articolo e delle preposizioni.

Perciò, “illum” sarà pronunciato dapprima “illu” e successivamente “illo”. Ritornando alla nostra frasetta ed applicando questo principio otteniamo, al posto di “ki illum”, “ki illo” , il quale però ha una “i” sovrabbondante e difficile da pronunciare; meglio dire direttamente “kìllo” e, ancora meglio, “ki o” o “kìo”.

Ci siamo. Abbiamo però adesso ancora da risolvere il caso di “frenulum”. Conosciamo però ormai alcuni principi ed, applicandoli, otterremo facilmente “frenulu” prima e “frenulo, fregnulo, fregno” poi.

Un altro tassello va così al suo posto. Il resto, secondo i principi anzidetti, si dipana ormai a valanga in questo modo: “et ecce hic alterum”, “et ekke ik altero”, “e ki altero”, “e ki altro“,  “e ki àtro”.

Eccoci arrivati; adesso trasponiamo tutta l’espressione in grafia moderna e vediamo il risultato finale: “kìo fregno e ki àtro”, “chìo fregno e chìatro”.

Gioco perfettamente riuscito. Da “Ecce hic illum frenulum…et ecce hic alterum” a “Chìo fregno… e chìatro” in pochi passaggi. Eccezionale!

E per quanto riguarda il significato? La versione in latino classico avrebbe lo stesso senso di quella in latino volgare?

Beh, quella in latino classico, tradotta letteralmente potrebbe essere resa così: “…Ecco qui quel piccolo freno… ed ecco qui l’altro”. Una cosa praticamente senza senso.

Abbiamo però osservato come il volgare usasse a volte terminologie più espressive ed efficaci alle quali spesso era assegnato un senso diverso che in origine; forse quindi basterebbe cercare di capire cosa si volesse intendere per  “frenulum”. E’ lì che si nasconde il problema.

Cerchiamo di entrare allora nella mente di un popolano romano dell’epoca e vediamo perché usasse il termine “frenulum”, che abbiamo già visto si riduce, alla fine, a “fregno” e che cosa volesse significare.

Bene, “frenulum” era il diminutivo del termine “frenum”, e cioè “freno”, che ha la stessa radice di “frendere” o “frindere” che, in latino, significava digrignare i denti emettendo il caratteristico e fastidiosissimo suono. Infatti i freni usati nei carri trainati da buoi o cavalli, ma anche a volte quelli di scarsa qualità utilizzati nelle autovetture attuali, una volta azionati emettono lo stesso suono.

Una volta passato nel volgare, il termine acquisisce il senso di qualunque cosa che trattiene ed impedisce il movimento ed, al diminutivo, la stessa cosa ma piccola, di poco conto, praticamente inefficace e quindi inutile.

E’ per questa ragione che, in italiano, anche lui figlio del volgare, con il termine “frenulo” si definisce il piccolo ed insignificante legamento che trattiene il prepuzio e quello visibile sotto la lingua. Il termine popolare italiano “fregnaccia”, e cioè “balordaggine inutile, da non tenere in conto” , ha la stessa origine.

Adesso ci siamo anche col significato; in volgare la nostra espressione latina “ecce hic illum frenulum… et ecce hic alterum” , diventata “chìo fregno… e chiàtro”, assumerebbe il senso di “quel tipo di poco conto… e quell’altro”.

Porca miseria, in nettunese è uguale! Identica la grafia, la pronuncia ed il senso.

Allora, siete convinti adesso del perchè credo fermamente nel fatto che i ciclisti nettunesi parlino latino?

Ora è tutto chiaro: sarà forse per questo che qualche volta noi di Anzio con quelli di Nettuno proprio non ci capiamo.

A questi punto, ho finito. Spero di non avervi annoiato troppo. Giuro, la prossima volta giochiamo ad un’altra cosa.

Una precisazione. Non sono un filologo; in tutto ciò che ho esposto non c’è alcuna pretesa o rigore scientifico. E’ solo uno scherzo, però non sono solo… fregnacce!

 

Agosto 2006                                                                                        Lo Scozzese