Dolomiti, La Villa, ore 6,30 circa. Il Sassonger veglia
dall’alto sulla nostra partenza, affatto intimorito dall’incredibile numero di
ciclisti d’ogni età, nazione e sesso, che si allungano ai suoi piedi in stuoli
che si dipartono da direzioni diverse convergenti verso la medesima via. Non lo
disturbano neanche gli elicotteri che volteggiano sulle loro teste, quello
della RAI per primo, dal quale un solerte cineoperatore documenta per qualche
telespettatore mattiniero, assonnato ma appassionato, questi primi momenti d’un
evento straordinario.
Michil Costa, organizzatore della
Maratona, accenna una danza propiziatoria insieme ad un gruppo di africani. Quest’anno la Maratona sostiene un’iniziativa tendente a
realizzare, col contributo volontario di alcuni, la realizzazione di pozzi per
l’approvvigionamento dell’acqua in Africa.
E’ proprio finalizzato a rappresentare tale iniziativa il
logo di quest’anno, che potrà essere anche ritrovato
tal quale sulle magliette distribuite ai partecipanti. Quello che appare di
primo acchito come il profilo dei monti, altro non è, infatti, che la sagoma di
un volto umano che riceve dalla Maratona una grossa goccia d’acqua.
E’ sempre il Sassonger, nella luce
incerta di un mattino freddo ed ancora immaturo, ad ascoltare l’ansito della
nostra prima e troppo precoce fatica sulle pendici severe del Campolongo. I ciclisti si dipanano un poco sovvertendo la
precedente situazione di aggrovigliamento, nel tentativo di trovare un ritmo di
pedalata adeguato. Ma è difficile; i muscoli sono ancora freddi per
l’interminabile attesa, immobili, della partenza. La sensazione di fatica è
quasi sconfortante. Grazie al cielo il Sassonger
sembra sospingerci alle nostre spalle, con una delle guglie che si staglia nel
cielo come il dito di una mano, teso, come
a simboleggiare un avvertimento:
quello di non demordere, la fatica è appena iniziata.
Passo Pordoi. Numerosissimi tornanti che portano a 2239
metri partendo da Arabba. Ciclisti che formano un
serpentone fitto e quasi invalicabile che conviene assecondare nella salita.
Meglio non tentare di guadagnare qualche posizione. Non è il caso di sprecare
energie.
Inevitabile che qui ritornino alla mente le varie edizioni
del Giro d’Italia nel quale questo passo è stato il punto più alto, arrivo di
numerose e famose tappe in salita. Il Sass Pordoi si
erge altissimo, quasi a sbarrare il transito ed a costringere a dirigersi verso
l’inevitabile fatica che segue.
Passo Sella. Il nome e la cresta frastagliata del Sassolungo dal profilo somigliante alle maglie di una
catena, richiamano stranamente due della parti più importanti del mezzo sul
quale, qui con maggior fatica, ritmicamente, di
tornante in tornante, di balza in balza, si cerca di guadagnare il valico.
Passo Gardena. Mattino ormai avanzato e comincia a fare
caldo. Il gruppo del Sella, incombente, forma una propizia area in ombra su un
tratto il leggero falsopiano. Subito dopo, ricominciata la consueta sequela di
tornanti in salita, dalle pendici dei monti, cascatelle
d’acqua freschissima precipitano da altezze imprevedibili creando, da sole e
per questo solo fatto, un’incredibile sensazione di refrigerio. Al passo, al
ristoro, è festa paesana. La gente si prodiga
a preparare panini, ad offrire ai partecipanti cubetti di formaggio montano e
fettine di speck. Da un locale vicino qualcuno fa la spola uscendone sempre con
un largo vassoio di strudel tiepido offerto con ottimo succo di mela. Un
gruppetto di giovani musicisti abbigliati col costume tradizionale, accompagna
allegramente con musica e canti la festa. Festa per gli occhi e per lo spirito.
Campolongo, di nuovo, e di nuovo il dito
minaccioso del Sassonger rivolto verso l’alto. Questa
volta però la gamba è calda ed il senso della minaccia si trasforma in un
invito a salire verso l’alto del passo, posto a 1834 metri.
Falzarego. Ascesa interminabile dopo essersi
buttati a capofitto dal Campolongo e da Arabba. La discesa, piuttosto che inebriare, acquista il
senso della minaccia: più si scende e più si dovrà risalire; e così sarà.
Si sale lentamente ma regolarmente e finalmente, il
serpentone dei ciclisti ingoiato dal tunnel situato nei pressi del passo,
annuncia la fine della fatica.
In cima ci si ricongiunge con coloro che, provenendo dal
versante opposto, hanno già affrontato il Giau nel
percorso lungo, il passo il cui cui nome, da
solo, già evoca la bestia od il suo
ruggito.
E’ tutto un vociare e commentare ed insieme ci si prepara
alla stilettata del Valparola, brevissimo ma
imprevedibilmente duro dopo aver affrontato già sei passi dolomitici. Ma è
veramente l’ultimo verso sforzo e poi sarà praticamente finita. I monti,
dall’alto, rendono il paesaggio, nello stesso tempo, aspro ed austero, reso ancora
di più tale dal fortino che accoglie il museo della Grande Guerra, lasciato
nelle condizioni in cui si trovava allora ed evocante le durissime ma gloriose
giornate vissute dalle nostre genti. La discesa verso San Cassiano,
La Villa e poi la leggera salita verso Corvara,
stupisce per la sua relativa brevità. Eravamo già vicini all’arrivo e non ce
n’eravamo resi conto.
Qui la soddisfazione e la fatica si legge sul volto di tutti ed è ancora festa;
festa del “pasta party” , delle premiazioni e dei commenti.
E su tutto ciò continuano ad incombere i monti. Ecco dov’è
l’eccezionalità di questa manifestazione, a parte la bellezza e durezza del
percorso, l’organizzazione, la partecipazione, il prestigio. Essa sta proprio
nel fatto che su tutte le vicende, su tutte le migliaia e migliaia di pedalate
di chi è più e di chi e meno allenato, di chi sale come uno scoiattolo e di chi
arranca faticosamente, di chi prende la cosa come una gara e di chi come una
passeggiata, vegliano continuamente e stanno a guardare, montagne di bellezza
impareggiabile, verdi nelle valli ed aspre e brulle verso la cima, frastagliate
a formare disegni fantasiosi, come merletti.
Un richiamo irresistibile anche al di là della semplice
partecipazione alla gara.
Montagne che si rivelano a volte minacciose e severe ed
altre volte sembrano quasi ammirare e proteggere il passaggio di quella
moltitudine di maglie multicolori, pazientemente, benignamente.
Tanto lo sanno, finita la festa tutto tornerà come prima e
resteranno ancora loro e solo loro a dominare l’ambiente, così come fanno da
millenni e millenni, durante i quali si sono alzate, increspate, scivolate una
sull’altra a formare una accozzaglia di forme e fogge incredibili, lentamente
ma inesorabilmente consumate a rivelare il loro forte e generoso cuore di
granito.
Lo
Scozzese